Recensione - Ma gli androidi sognano pecore elettriche? (Philip K. Dick, 1968)

Scrivere di un libro che è una pietra miliare nella storia della fantascienza moderna è sempre piuttosto complicato.
Si rischia di cadere nello scontato, nella sensazione di "già sentito" soprattutto se stiamo parlando di questo libro. Procediamo dunque per gradi.

Dick scrisse il romanzo Do Androids Dream of Electric Sheep? nel 1968, durante uno dei periodi forse più bui della sua vita. Arrivato alla quarta moglie, inquieto, dipendende dalle anfetamine. In questo suo tormento, Dick tirò fuori dal cilindro un capolavoro oscuro, dalla notevole profondità etica, solo all'apparenza celato dietro tematiche "semplicemente" fantascientifiche.
Dick morì nel 1982, poco dopo aver visitato il set del film che si ispirava pesantemente a tutto l'immaginifico disegnato a tinte decisamente cupe in questo romanzo.
Il film era Blade Runner, di Ridley Scott.
Nientepopodimeno che.

In Italia l'opera arrivò qualche anno dopo, nel 1971, con il titolo "Il cacciatore di androidi", poi in seguito al successo commerciale di Blade Runner venne riedito ed intitolato proprio così. Da qualche anno è stato nuovamente tradotto e ripubblicato con un titolo finalmente simile all'originale, ed è attualmente edito da Fanucci, specializzata in horror, fantascienza e thriller.

Ma di cosa parla quest'opera?
Ebbene parla di una giornata di lavoro di Rick Deckard, cacciatore di androidi in un pianeta che è solo il simulacro di ciò che era: devastato dal fallout nucleare, abbandonato, marcescente. L'anno è il 1992, il pianeta è la Terra, o ciò che ne rimane.
In questa San Francisco cyberpunk, vent'anni prima che il cyberpunk stesso fosse "inventato", Deckard avrà a che fare con alcuni androidi fuggiti da marte: i modelli Nexus 6, in tutto e per tutto indistinguibili dall'uomo.
Lontano dall'immagine che abbiamo di Deckard come un novello Philip Marlowe, dal volto corrucciato prestatogli da Harrison Ford, egli in realtà è un uomo annoiato, depresso, che vive con la moglie Iran altrettanto depressa e che disprezza il lavoro che lui svolge. Inoltre è macchiato dallo stigma sociale di non possedere un animale domestico vero, ma soltanto una replica robotica: una pecora.

Dick/Deckard si pone - e pone al lettore - nel corso delle sue peripezie alcuni dubbi di gittata molto ampia. Cosa è robot e cosa è umano? Nel film questo confine è sottilissimo: ricordate il famoso monologo di Rutger Hauer / Roy Batty?
"Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi. Navi da combattimento in fiamme al largo dei bastioni di Orione. E ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhäuser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo come lacrime nella pioggia. È tempo di morire."
Ebbene, di questa poetica - insolita per una fredda macchina robotica - nel libro non c'è traccia. I replicanti sono macchine che perseguono un obiettivo. Sono i "cattivi", per dirla tutta. Dunque sembra una cosa più facile ed immediata, giusto? Sbagliato.
Nonostante questa apparentemente marcata differenza con l'essere umano, la vera distanza che hanno da essi è che gli androidi sono incapaci di provare empatia, ovvero di immedesimarsi nel vissuto di qualcun altro. A tutti gli effetti, è proprio e solo questa la discriminante, per Deckard e gli umani, per decidere se un essere è vivente o meno.
La cosa si complica in un quadro in cui l'intero genere umano rimasto sulla Terra si è disumanizzato al punto tale da doversi costruirsi una religione ex-novo (il Mercerianesimo) per ricordarsi cosa significhi empatia. Le differenze diventano ancora più sottili tra individui che non provano empatia ed individui che stentano a riconoscerla, ed i dilemmi etici sono dietro l'angolo per un poliziotto depresso che deve "ritirare" esseri che forse lui stesso non si sente degno di valutare.

Esiste una stratificazione ulteriore nello scritto di Dick: una differenza filosofica tra Mercer e Buster Friendly, ovvero tra religione e tra gnoseologia, che si riflette nel dualismo Deckard / androidi. Ovvero: io sono un soggetto, e valuto il mondo che sta intorno a me in quanto composto da oggetti e soggetti. Cogito ergo sum, direbbe Cartesio.
Ecco, il cogito cartesiano qui semplicemente non funziona. I cyborg sono soggetti, a tutti gli effetti, oppure oggetti? Pensano, ma non sono. Interpretano il mondo tramite canoni simili ai nostri, ma non uguali.

Lungi da me dall'indugiare sulla trama, andando a rischio spoiler per chi volesse intraprendere la lettura di questo libro. Sappiate soltanto che l'ho trovato geniale, veloce, coinvolgente, profondo e dal raro potere di far condividere al lettore tutti i dubbi etici del protagonista.
Inoltre l'ho trovato tanto potente quanto le leggi della robotica teorizzate da Isaac Asimov. Anzi, ne è l'esatta nemesi, è un futuro (immaginato) antitetico ma di uguale effetto.

Meglio il film o il libro?
Perchè non tutti e due? Blade Runner è il mio film preferito. Se questo libro non lo è, di sicuro ci si avvicina tantissimo.

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