Recensione - Joyland (Stephen King, 2013)

Joyland è l'ultimo libro di Stephen King edito in Italia.
Hanno provato in diversi a definire a quale categoria possa appartenere: thriller? Anche. Horror? Qualche spruzzata. Mistero? Volendo. Fantasmi? Certo.
Ma Joyland non è tutto questo, anzi, è anche tutto questo.

Quest'opera è pura poesia. Appartiene al genere dei libri commoventi che non ti si staccano dalla pelle nemmeno se ci dai con un raschietto. Un King romantico e cinico, disincantato e malinconico come non mi capitava di leggere da Il miglio verde.

Siamo nel 1973, e Devin Jones, ventunenne universitario squattrinato, decide di rispondere ad un annuncio di offerta di manovalanza presso il parco divertimenti di Joyland. Dev parte tra non poche sopracciglia alzate, tra cui le sue, e dopo poco si troverà ad avere a che fare con un carrozzone di umanità variopinta, opinabile, divertente. Scaricato da ogni donna del circondario, in preda ai tormenti della voglia di crescere, di un amore perduto, di un costume che è un onore ed una maledizione al tempo stesso, Dev passa un anno della sua vita in questo luogo.
Il libro segue il mood delle stagioni in un parco divertimenti: tanto fremente e colorato all'inizio, quanto decisamente chiassoso e sudato nella parte centrale, per poi virare su una malinconica scala di grigi e di blu verso il finale, quando l'autunno scende su Joyland e sulla vita di Jonesy.

King è sempre King: c'è il tema dell'amicizia, tormentata e non priva di pulsioni, c'è il tema del gruppo (che siano i manovali, che sia il personale del parco o che sia uno strano party composto da un cane, un malato terminale, e un'ex-figlia problematica), e ci sono degli sprazzi di puro S.K. old style. Ora, è difficile parlare di quest'ultima tematica senza spoilerare nulla; ma le piccole venature di horror che costellano il libro, e sono veramente poche ma sapientemente dosate, sono come le striature rosse del gelato all'amarena. Te le aspetti, sai che ci sono, ma quando arrivano ti riempiono la bocca di sapore di ciliegia. O, in questo caso, al sottoscritto hanno spremuto le surrenali in almeno un paio di occasioni. Anche perchè in un libro tutto sommato "leggero", in cui il soprannaturale se ne sta un po' alla finestra e se la ride, l'autore riesce a decidere esattamente il momento in cui farti arrivare un tram di disagio e discomfort in faccia, senza premurarsi di chiederti se ne hai voglia. E vivaddio, ci riesce.

King sa far benissimo due cose, all'interno di ciò che gli riesce meglio - ovvero scrivere: disegnare panorami con le parole, e disegnare personaggi.
Faccio un esempio per spiegare meglio.
Una delle cose che mi ha progressivamente allontanato dal giallo à la Agatha Christie è l'uso della trama quasi come solipsismo del libro stesso. Il libro è la sua trama. Mi spiego: prendiamo Assassinio sull'Orient Express della sopracitata autrice britannica. Se togliamo la trama e lo stream of consciousness di Hercule Poirot, cosa rimane? Visivamente, solamente un microscopio dell'iperrealismo - un'occhio scientifico, oserei dire - su ciò che circonda Poirot, al fine di scovare indizi per quella che per me rimane una delle più improbabili conclusioni di un libro.
E i personaggi? Messi in una lista all'inizio del libro, con nome e ruolo. Poirot - investigatore. Gianfrancioschio - controllore. Antoniurzia - moglie del Commodoro. Chi ha bisogno di profondità? A noi qui interessa nome, cognome, relazione con la vittima e dov'eri alle 13.54 di ieri.
Scomodiamo un altro mostro sacro: l'Edgar Allan Poe de I delitti della Rue Morgue paga nello stile un certo manierismo ottocentesco, anche se il monologo dell'ispettore Auguste Dupin in cui con un'acume fuori del normale riesce a collegare i vari pezzi del puzzle, è fenomenale. Ma... ma tutto il racconto si riassume in un enorme "spiegone" di Dupin sul motivo per cui chiunque fa qualunque cosa in qualunque momento. Non c'è spazio per i personaggi, e si stenta a riconoscere Parigi sullo sfondo. Poteva essere Londra, o Abbiategrasso.

Lo so, sono gialli. L'indagine qui è tutto, e di conseguenza la trama. Stiamo parlando di generi diversi e di epoche diverse, quindi so già che ciò che sto dicendo è imparagonabile a priori: tuttavia gli esempi precedenti mi servono per spiegare il mio punto di vista ed il mio livello di godimento nel leggere King. Semplicemente, lui disegna posti che non sono mai scontati: se sono squallidi, ti sembra di vedere la carta da parati che si scolla. Se sono assolati, senti il caldo sulla tua pelle. E quando piove, piove anche dentro di te. E' l'uso delle parole, del lessico (ottimo lavoro dei traduttori, ma alcuni estratti in lingua originale che ho letto danno l'idea del lavoro che King fa sulle parole), l'alternanza di linguaggio scritto e "parlato", sovente colorito, che rendono il tutto più immediato. King non è un barocco: è un gotico alto e imponente.
E poi ci sono i personaggi. Di nuovo, lasciatemelo dire: mai scontati. Non ci sono archetipi, né modi di pensare e di agire stereotipati. Ogni personaggio vive di vita propria: ha tic, modi di dire, gestualità e movenze che sono tipicamente sue.
Ricordo il disagio di Carrie. Ricordo l'insonnia di Ralph. Ricordo i perdenti di "It". E la gonna svolazzante di Sadie mentre balla il lindy-hop. E ricordo quattro ragazzi che camminano sulle rotaie in una giornata assolata. I personaggi di King sopravvivono ai suoi racconti.

Non che manchi la trama. Ma di solito non è una trama dagli artifizi letterari sconvolgenti, e contorta al punto tale che il lettore deve annotarsi chi ha detto cosa. Si parte assieme ai personaggi da un punto A, e pensando di andare verso un punto B ci si ritrova a percorrere strade ignote e misteriose che portano verso tutto il resto dell'alfabeto. E' coinvolgente. E' immersivo.
Oh, a me i libri piacciono così. Mi piace leggere di persone "vive" che fanno cose o che ci si ritrovano invischiate loro malgrado. Mi piace che si facciano domande che potrei farmi anche io, e che si diano risposte che potrei darmi anche io.

Questo libro è un piccolo capolavoro. Non mi sono dilungato molto sulla vena malinconica e poetica che pervade l'opera, per il semplice motivo che chiunque abbia mai visto una ruota panoramica stagliarsi contro il cielo plumbeo in una giornata di ottobre può cercare quelle sensazioni dentro di sé.

La fine, l'inizio. In fondo, questo libro è tutto qui.

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