USS Proteus


La nave arrivò a Jupiter Island, un posto qualunque sulla costa est della Florida.
Non fu esattamente un attracco, ma nemmeno uno schianto. Andò ad incagliarsi dolcemente a mezzo chilometro dalla bianca spiaggia. Era comparsa all’orizzonte alle prime luci dell’alba, arrancando risolutamente verso la costa. All’incirca a metà mattina si era già capito come quel lungo e basso natante non appartenesse a questo secolo. Chiglia piatta, storpie impalcature sopra al ponte e un comignolo per smaltire il fumo: sembrava un mercantile o una vecchia, vecchissima nave da guerra.
Le autorità si erano già mobilitate, così come le televisioni. I notiziari riportavano che tutti i tentativi di comunicazione con l’equipaggio erano falliti. Avevano tentato di tutto: radio, segnali luminosi, un contatto diretto da parte di due elicotteri della polizia equipaggiati con megafono. Avevano persino rispolverato un vecchio telegrafo, ma niente da fare. Nessuna risposta.
Silurare la nave a pochi chilometri dalla costa, poi, non appariva certo un’opzione valida, né simpatica. Dopotutto, non si sapeva niente di questo natante, comparso dal nulla sui radar della Guardia Costiera. La gente inoltre si era già assiepata sulla spiaggia: una folla incuriosita e incerta nei riguardi di quell’arnese che si stagliava in controluce.
Man mano che si avvicinava alla riva i dettagli si definivano. Era sempre meno nave e sempre più blocco di ruggine, provato dal tempo: quasi un miracolo che fosse ancora intera nonostante l’intensa erosione che gli anni le avevano riservato. La si sentiva cigolare in sincronia col moto ondoso, un rumore stridente e continuo, come unghie su una lavagna. Persino i gabbiani le stavano lontano: non c’era niente da mangiare. Niente di niente.
Così, lentamente ma inesorabilmente, animata non si sa da quale forza, la nave si appoggiò dolcemente al fondale, con un gigantesco – forse il suo ultimo – gnaulìo sinistro. Nulla ne uscì, nulla ci entrò, anche perché la Guardia Costiera iniziò freneticamente a pattugliare la zona e a transennare dove poteva. Una piccola corvetta rimaneva sempre di guardia, e le imbarcazioni dei curiosi che sopraggiungevano venivano tenute a distanza di sicurezza. Nessun nome compariva sulla chiglia, probabilmente eroso dall’aria salina e dal tempo.

Un uomo, altrove, stava imprecando al telefono. Non amava quegli apparecchi, lui apparteneva ad un’altra epoca. E non amava nemmeno le persone che non gli davano ascolto.
- Vi dico che devo parlare con la persona che é a capo dell’operazione! E’ importantissimo!
Dall’altra parte della linea la centralinista del 911 percepiva la voce tremolante ma risoluta di un uomo anziano, e fu proprio la sua attitudine che la convinse che – forse – poteva non essere il solito mitomane.
- Signor Wilmington, mi permetta di ricordarle che non possiamo comunicare telefonicamente a chiunque i nomi...
- Oh per cortesia! – la interruppe, – So come funzionano queste cose, sono stato in Marina, dannazione! Io conosco quella nave! E devo parlare urgentemente con un responsabile!
- Signore, facciamo così. Perché non viene al distretto e ne parliamo con calma? Non possiamo...
- Perché sono un fottuto invalido, santo Dio! E ho 91 anni! Riesco a malapena ad andare al cesso senza cacarmi addosso, come pretende che riesca ad arrivare in centrale?
La centralinista, messa alle strette, ed un po’ in imbarazzo, ripiegò.
- Signor Wilmington, le mando qualcuno a casa.
Dopo aver lasciato i propri dati, Wilmington riappese. Razza di idiota, pensò. Non farete in tempo.
Eddie Connors aveva raggiunto i due agenti dell’FBI che in fretta e furia erano stati inviati sul posto per indagare su quello strano accadimento. Con loro, sul posto, c’era già un agente dell’NCIS, tale Antony J. Kirk. E quanto aveva rimarcato quel “J”, come se fosse un titolo nobiliare. Antony re-di-sto-cavolo Kirk.
I quattro stavano parlottando, quando a Connors squillò il cellulare.
- Capitano, sono Dora. Ecco, vede... ho ricevuto una strana chiamata da parte di un signore anziano. Un certo Wilmington. Insiste nel dire che sa qualcosa di quella nave, che sarebbe meglio parlare con lui prima di entrar dentro e...
- Dora, - la interruppe Connors – scusami, ma chiama un signor nessuno e tu non hai nessun altro a cui rivolgerti che il sottoscritto? Immagino che il Coast Guard Investigative Service abbia altre persone che possano occuparsene, no? Chiama quella palla di lardo di De Paula, mandaci lui.
- Capitano, ma...
- E’ tutto, grazie Dora.
E riappese, riprendendo a parlottare con quei pinguini dei federali e col re-di-sto-cavolo per concordare una strategia di ingresso nella nave.

De Paula lesse il foglietto un’altra volta. Morgan Avenue, gli aveva detto quel bel bocconcino di Dora, e lui se l’era appuntato sul taccuino ungendo la carta con l’olio che dalle sue crocchette di pollo si era trasferito ai suoi polpastrelli. Continuando a pulirsi le mani, bisunte, sul retro della divisa, chiuse la portiera, e ondeggiando sotto il peso dei suoi 140 chili si avvicinò al civico 1342. Il campanello recava semplicemente “Wilmington” come targhetta. Doveva essere quello giusto.

Connors aveva constatato che sbraitare per mezz’ora non aveva portato a nulla. Peggio, i federali come sempre si erano imposti ed avevano studiato la loro strategia a priori. Infatti una corvetta stava già coprendo i cinquecento metri che la separavano dal relitto, con un manipolo di sei uomini armati, pronti ad entrarvi dentro.
- Vi dico che secondo me é un’idiozia. E poi, che cazzo, potevamo fare un’operazione congiunta! Cosa ci stiamo a fare noi qui, la muffa?
- Anche l’NCIS reclama la sua giurisdizione su questa nave! – fece eco Kirk.
- Ma piantatela! Chi l’ha detto che non é un’operazione congiunta? Ovviamente salite con noi sul gommone, entriamo in quella sottospecie di rottame, diamo un’occhiata, e poi penseremo al da farsi. Non sappiamo nemmeno da quale piega del tempo arrivi, questa nave! Io dico saliamo, e poi ci scanneremo dopo.
- D’accordo, ma le operazioni le deve coordinare il CGIS! – quasi gridò istericamente Connors.
L’agente dell’FBI sollevò gli occhi al cielo, guardò il collega e si diresse al gommone senza neanche rispondere. I quattro salirono a bordo, e partirono. In qualche minuto furono sotto la prua, e percorsero i 150 metri di lunghezza della nave a velocità ridotta, per osservarla meglio. Non era vecchia, era... antica. Fossile. Precolombiana. Arcaica. Ogni singola vite era un blocco di ferro ossidato e rossastro. Raggiunsero i sei militari e Connors vide che quelli nel frattempo avevano già allestito una scaletta di emergenza, lanciata con dei rampini, per riuscire a guadagnare il ponte, una ventina di metri sopra la linea di galleggiamento. In breve i 10 erano sulla tolda, a poppa, e cominciarono a guardarsi attorno.
L'aria era spettrale. Nulla di sano e di vivo apparteneva a quel posto. Solo silenzio, rotto da qualche sporadico cigolio, e nient'altro. Connors deglutì: sarebbe stata una lunga giornata.

Agente De Paula, eh? – disse Wilmington aprendo la porta, ed arretrando a fatica sulla sedia a rotelle.
- Buongiorno Signore, vengo in merito alla sua chiamata di poco fa.
- Sí, ma é già troppo tardi, quindi si metta pure comodo. Vuole qualcosa?
- No la ringrazio – si schernì De Paula – anzi, se vogliamo arrivare al punto sarebbe meglio. Con questa storia della nave siamo tutti un po’ in fermento, ed abbiamo molto da fare.
E mi si agghiacciano le crocchette in macchina, continuò solo pensando.
- Perfetto, allora sarò breve. Quella nave é una carboniera.
- Una carboniera?
- Sí, una vecchia nave militare che serviva di supporto alle altre navi operative. Portava carbone ma anche olio e viveri. Sa quando é stata costruita?
- Ho sentito dire che assomiglia a dei modelli dei primi anni venti.
- Per la precisione, quella nave é del 1912. Mio padre faceva parte dell’equipaggio. Era in Marina, sa?
De Paula annuì, poco convinto. Nessuna rivelazione illuminante, finora, da parte del vecchio.
- Dunque lei sa come si chiama la nave?
- Quella é la USS Proteus. Non ci sono dubbi, la riconoscerei tra mille.
De Paula scrisse sul suo taccuino, tra una macchia di fritto e l'altra. Il nome non gli era nuovo.
– Cosa le fa pensare che sia proprio quella? Voglio dire, da cosa la riconosce?
– Vede, De Paula. Quella nave – con mio padre sopra – sopravvisse alla prima guerra mondiale. Venne decommissionata nel 1924, e rimase alla fonda a Tampa Bay fino al 1940 circa. Mio padre era del 1890, e se ne uscì dalla marina a 45 anni, come ufficiale, nel 1935. Ci trasferimmo a Miami, gli diedero un posto dietro una scrivania dopo 25 anni di onorato servizio. Odiava stare in ufficio, lui amava il mare. Quando seppe che la nave, la sua nave, la Proteus, era diventata una nave commerciale, fece di tutto per entrare a far parte del suo equipaggio, mollando la Marina. E ci riuscì. Finché...
Wilmington prese fiato e il suo sguardo si perse nel vuoto. De Paula, un po’ spazientito ma anche vagamente incuriosito dal racconto, lo incalzò. – Finché?
- Mio padre mi portò tante volte a vederla. Ecco perché la so riconoscere. La nave fu poi venduta alla Saguenay Terminals di Ottawa, così nel ’41 i miei partirono per il Canada. Ci lasciammo a settembre, con la promessa di rivederci in Florida a novembre. Io ero appena entrato in Marina, ed ero di stanza a Fort Lauderdale. Il 23 novembre la Proteus rilasciò l’ultimo comunicato via telegrafo. Non é mai arrivata né in Florida, né altrove. Un paio di settimane dopo i giapponesi attaccarono Pearl Harbor. Lasciai la Florida per le Midway, ma di mio padre, e della Proteus, sempre nessuna traccia.
- Ma cosa successe alla nave? – continuò De Paula, ora palesemente sulle spine. Il nome gli frullava in testa, ma non gli si accendeva nessuna luce.
- La Proteus era di rotta attraverso quello che la gente oggi chiama Triangolo delle Bermuda. Da quanto ne so io, le ricerche non diedero alcun frutto. I tedeschi non reclamarono la paternità di un eventuale affondamento. La nave era svanita.
De Paula era basito. Ora ricordava quella storia, quella sparizione misteriosa. Aveva un po' turbato le sue fantasie di bambino, ed evidentemente l'aveva rimossa. Si schiarì la voce e continuò:
- Lei ovviamente non crede a queste cose. Voglio dire, sono superstizioni e...
- Agente, per favore. Quella nave l’ho vista in tv, come l'ha vista lei. Sembra uscita dal passato. Mi vuol far credere che è rimasta intrappolata tra i flutti per settantuno anni, in preda a chissà quale avaria, che nessuno ha mai diramato un s.o.s. o, che so, preso una scialuppa e tentato una fuga? Raggiunta una qualunque costa e fatto una telefonata? De Paula, se lei ne è convinto, è lei quello che crede alle favole.
De Paula riflettè: non faceva una grinza.
- Wilmington, come posso essere sicuro che lei non si sbagli? Voglio dire, è al cento per cento sicuro che sia la Proteus?
- Come sarebbe a dire cento per cento? Non lo so dove è sparito mio padre? Allora facciamo così: le dirò un segreto. Non visto, io ho disegnato qualcosa, una volta, sul montante destro del vetro della cabina di prua. L’ho inciso con una punta di cacciavite. E’ un piccolo polipo. Trovatelo, e avrete la conferma. Ma per carità, fate in fretta.
- Perché questa concitazione, Wilmington?
- Lei ha sempre sentito di cose sparite in quel Triangolo, giusto?
- In effetti sì.
- E le risulta che qualcosa ne sia mai ritornato? E soprattutto: in tutto questo tempo… dove è stata quella nave?
Ancora una volta, non faceva una grinza.

De Paula mangiava crocchette, ed intanto guidava. Unse il cellulare e compose il numero di quel tronfio pallone gonfiato di Connors.
- Che c’è D… aula?
- Capo, la sento male. Sono stato da quel tizio e... ma dove cazzo è, capo?
- De Paula sono ...ordo della nave. Dimmi in fr…a perché non so la conn...e quanto possa durare!
- Ok, allora mi ascolti, forse ho un nome e una storia per quel pezzo di ferro. E’ la Proteus, vecchia carboniera del 1911, ma per confermare dovete andare a prua e cercare sul montante della cabina un qualche segno o simbolo inciso. Dovrebbe esserci un polipo disegnato da qualche parte, capo!
- De Paula, non stiamo fa...o una caccia al te...ro!
- Capo... veda lei se vuole confermare o meno la storia di quel vecchio. Comunque la cosa più interessante è che...
- De Paula, sono praticamente arriv...o. Dunque, vediamo: sul montante... ...ì! C’è un simb… ...gnato. Non sembra un ...lipo, ma più che altro un ...zzo! Comunque sì, c’è!
- D’accordo capo! Stavo dicendo che un’altra cosa che deve sapere è che la Proteus nel ’41 era sparita nel Triangolo delle Bermuda e... capo? Connors?!
Muto. Fece il numero altre tre volte, ma non c’era campo evidentemente. Sbuffò, e un attimo dopo, le sue priorità erano le pepite di pollo, diventate oramai gelide.

- De Paula! Come dici... dov’è stata la Proteus? Pronto!
Gli altri personaggi sulla barca lo guardavano un po’ supponenti, come dire: ma guarda ‘sti cretini come lavorano.
- Mbeh! E allora! Che cazzo volete! - tuonò Connors. - Vogliamo entrare dentro, o stiamo qui a telefonare a casa alla nonna?
La nave era vecchia, anagraficamente. Ma quello che poteva essere considerato “vecchio” era solamente qualche oggetto e qualche rifinitura. Il resto era al di là del tempo. Completamente arrugginito, sporco, logoro, rotto. La nave di Caronte.
Le scialuppe di salvataggio erano cadute, rilasciate dalle corde che li tenevano sollevati, spezzate dall’azione dell’acqua e del peso. Una si era conficcata di punta sulla tolda, fracassandola e mostrandone un interno buio e polveroso.
Connors si sentiva inquieto. Continuava a vedere – o meglio non vedere – anima viva. Neanche un insetto, un uccello, una larva, niente di niente. Tutto era morto in quella nave e la nave stessa era uno zombie. Tuttavia qualcuno o qualcosa doveva pure averla portata in quel posto, o ci era arrivata per qualche strana combinazione fisico-magnetica oppure...
- Connors! Che fa, non viene? Non stia lì incantato!
Kirk aveva riscosso Connors dalle sue riflessioni; ora i due si erano accodati ai militari che, uno alla volta ed in rigoroso assetto da irruzione entravano all’interno della cabina di comando, che aveva un accesso laterale semiaperto. La luce filtrava debole dalle finestrature, a causa della polvere che vi si era depositata, quindi fu necessario accendere torce elettriche e visori a infrarossi nonostante fossero le quattro del pomeriggio.
Il diario di bordo venne rinvenuto da un agente dell’FBI, ma non recava nessun commento interessante. Semplicemente, si interrompeva al 22 novembre 1941, mentre la nave era in rotta per la Florida. I piani di navigazione erano a posto.
- Kirk. Hai mai visto una cosa del genere?
- Sinceramente no, Connors. E’ come se questa nave fosse stata sott’acqua per cent’anni, ma non può esserci stata. Primo, non ci sarebbe la polvere. Secondo, ovviamente ci sarebbero conchiglie e incrostazioni attaccate. E terzo...
- ...non sarebbe in grado di disincagliarsi dal fondale, risalire in superficie e navigare per chissà quanto così, come per magia. Come un vascello fantasma.
- Esattamente, Connors. C’è qualcosa che non mi torna. E non mi piace.
- Pensi a...
- Pirati. Spiegherebbe l’uso di una vecchissima bagnarola, magari a suo tempo rubata, il fatto che si siano rifiutati di rispondere a tutti i nostri appelli, e che magari siano da qualche parte nascosti ad aspettarci.
Può essere, Kirk, ma non mi sembra una manovra molto efficace incagliarsi sulla spiaggia con una nave da 150 metri che sembra uscita dal museo del vecchiume. Dà decisamente nell’occhio, mi pare. E poi guarda il timone e le varie manette dei motori. Sono completamente impolverate e incrostate. Non dico un'impronta digitale, sarebbe chiedere troppo, ma almeno una ditata di quelle da zia acida che toglie la polvere dal comò della sorella. E invece niente. Come l’hanno guidata questa nave? A remi?
Kirk non riuscì a controbattere, anche perchè all’interfono un militare disse: - sono in sala macchine, corridoio est, seconda porta. Qui c’è qualcosa.
Come un sol uomo i quattro investigatori si diressero verso la sala macchine. Il corridoio era rosso come il sangue, a causa della ruggine. La poca luce che passava dagli oblò lasciava solamente intendere le forme e gli ingombri. A Connors venne in mente cosa gli ricordava quell’ambiente: una fottuta cripta.
Il militare indicò per terra. – Signore, ho trovato queste macchie. Sembra sangue, Signore. Potrebbe essere successo qualcosa, qui.
Gli agenti si chinarono. Effettivamente, per quanto vecchio, rappreso ed incrostato, ne aveva tutti i crismi. Era sangue, e ce n’era veramente tanto.
- Mi piace sempre meno, Connors.
E neanche a Connors piaceva tanto.

De Paula era in prossimitá della spiaggia. Le crocchette erano finite, e lui era in pace con sé stesso. Parcheggiò il pickup e raggiunse l’area transennata. Mostrò il distintivo e guadagnò l’accesso ad una specie di tenda che era stata montata in spiaggia. Un gommone era ormeggiato poco lontano.
Entrò bofonchiando una specie di saluto, poi chiese al primo militare disponibile – tutti indaffarati a svolgere non si sa quale mansione – se poteva entrare in comunicazione col Capitano Connors, a bordo della nave, per dargli una notizia urgente.
Qualche sguardo interrogativo, poi uno di loro gli porse un walkie-talkie dicendogli: - sono già dentro. Ma da quando sono entrati, non c'è verso di parlare con loro. Sembrano in un campo magnetico.
De Paula schiacciò il bottone di comunicazione: - capo, mi riceve?
Nessuna risposta. Soltanto statica.
- Capitano Connors? Capo?
Ancora niente. De Paula era in serio imbarazzo: di per sé, comunicare a Connors che la nave era riapparsa nientemeno che dal Triangolo delle Bermuda non era una notizia che potesse spostare di molto gli equilibri di quell’operazione. O forse sì? Nel dubbio, decise di farsi accompagnare a bordo. Uno svogliato militare mise in moto il gommone con l’intento di accompagnarlo, mentre un altro lo dotava di equipaggiamento (visore a infrarossi, torcia, giubbino antiproiettile, che gli era clamorosamente stretto, radio). De Paula salì sul gommone, che non gradì, coricandosi sofferente di lato. Si sistemò al centro e, ad assetto ristabilito, fece un cenno al militare che diede gas, lasciandosi in pochi attimi la riva alle spalle.

Connors, Kirk e gli altri erano arrivati agli spogliatoi. Il posto era nero come la pece, non si poteva fare affidamento su nient’altro che il visore a infrarossi. Il colore dominante era passato dal rosso-ruggine al verde-visione notturna. Il silenzio era rotto soltanto dai ronzii delle radio, il fruscio dei vestiti e lo scalpiccio degli scarponi sul pavimento metallico. C’erano diverse targhette sugli armadietti: Branson, Derrick, Nowotny, Wilmington, Turrini...
- Aspetta un attimo – disse Connors a sé stesso, ma ad alta voce – Wilmington. Era il nome... quel nome che mi ha dato Dora! – schiacciò il pulsante per le comunicazioni a terra. – Mi ricevete? Pronto?
Silenzio. Proprio quando ne aveva bisogno. Prese il telefono, ma ovviamente non c’era campo. Tagliati fuori da questo universo. – Merda! – commentò con disappunto.
Improvvisamente rumori di arma da fuoco, misti a grida. Connors guardò Kirk che ricambiò l'occhiata, e schizzarono fuori dallo spogliatoio all’unisono, con le pistole spianate, seguendo il rumore degli spari. I militari in quel momento erano nella sala principale, in fondo al corridoio. Mentre correvano la radio continuava ad amplificare il rumore dei colpi e quelle che sembravano urla di dolore, di disperazione. Dalla porta socchiusa i lampi dei colpi si ripercuotevano sul visore notturno, abbagliando i due investigatori ad ogni proiettile. Connors quasi in fondo al corridoio improvvisamente alzò la mano e si bloccò, e Kirk quasi gli andò addosso.
- Ma cosa cazzo stai...
Poi vide. Rotolata davanti ai piedi di Connors c’era una testa. Stava ancora dondolando, il volto – quello che ne rimaneva – una maschera di terrore. Era uno dei due federali. La scia di sangue proveniva dall'uscio semiaperto della sala principale, ora tremendamente buia e silenziosa. Connors deglutì, guardò Kirk che era ancora impietrito, appoggiato alla parete dietro a lui, e fece un passo avanti per sbirciare dentro la stanza.
Un macello. Ma non in senso lato, era proprio un macello. Almeno tre corpi erano sbudellati al suolo, gli arti piegati in modo innaturale. Proveniva forte odore di polvere da sparo e di qualcosa di più acre e rivoltante. Come se mille pesci fossero marciti al sole. Le pareti erano lucide, come se qualcuno le avesse appena spalmate di sangue, interiora e materia cerebrale. Connors si voltò di lato per sfuggire al tanfo, ma bastò una sola zaffata per esserne nauseato al punto di barcollare. – Kirk, andiamo via da qui. SUBITO.
Un attimo dopo essersi girato, si rese conto che Kirk era ancora impietrito, fermo nella posizione in cui l’aveva visto un attimo prima. – Kirk, che cazzo, andiamocene! Chiamiamo rinforzi! Kirk!
Lo scrollò per una spalla, l’altra era ancora appoggiata alla parete. Kirk cadde lungo e disteso davanti a lui, sulla schiena. Tinco. Stecchito. Le orbite erano vuote, e Connors poteva vedere il pavimento attraverso di esse.
Gli manca mezza testa. Gli manca una cazzo di mezza testa.
Le rètine di Connors iniziavano a mandare bagliori per il terrore. Sentiva gli sfinteri che si rilassavano, e la schiena diventare di ghiaccio. No, pensò, devo uscire da qui.
Fece un timido passo in avanti, poi un altro, poi un altro ancora. In un battibaleno stava correndo a perdifiato da dove era venuto. Solo che... non ricordava che il corridoio fosse così lungo. E neanche così illuminato. Dovette togliersi il visore a infrarossi, perché vedeva tutto bianco. Dagli oblò proveniva ora una luce incredibilmente forte. Il corridoio non era più arrugginito, anzi sembrava proprio in buone condizioni. Guardò fuori da un oblò, e gli sfinteri si rilassarono completamente.
Un immenso mare di melma nera, bollente, avvolgeva la chiglia della nave. Il cielo era giallo, un giallo malato e terrifico. Strane creature quadrialate si dibattevano in quel cielo. Erano nere e squamose, con code lunghe e lucide. E i denti. Avevano enormi bocche con le quali strappavano teste e tentacoli a delle specie di enormi polipi deformi che di tanto in tanto emergevano da quella sorta di melassa oscura. In lontananza si vedeva la terraferma, bordata da immense montagne sulfuree, arancioni, dalle quali si levavano pennacchi di fumo. E vicino a riva stavano enormi giganti blu a sei zampe, irti di aculei, sbavanti dalle loro quattro immense fauci e con un unico occhio dallo sguardo cieco e pazzo guardavano proprio verso la nave, mentre barrivano i loro canti di guerra. Due soli illuminavano quell’osceno quadro di un pianeta sul quale Connors era alieno.
Il calore della sua urina era appena finito, lasciando il posto alla sensazione di freddo e bagnato. Connors staccò lo sguardo dall’oblò, tremando come una foglia, solo per posarlo su un vecchio. Era vicino a lui e osservava lo stesso panorama, dall’oblò di fianco. Connors non riuscì a valutarne l’età. Era decrepito, la pelle incartapecorita e scura, la bocca sdentata, gli occhi cavi.
L’uomo si girò verso di lui, e con il flebile lamento di una voce che erano mille voci lontane disse: - noi siamo la porta. Presto ci apriremo a voi.
Connors vide che era vestito con una camicia a maniche corte della USS Proteus, e aveva il nome sul taschino. Wilmington. Allora sollevò la pistola, e gli sembrò di metterci un'eternità. Quel posto forse aveva una gravità tutta sua. La testa di colui che un tempo si chiamava Wilmington si spaccò a metà fino al collo, rivelando un’enorme fila di denti aguzzi e marci. Connors stava già sbavando vittima del terrore, quando quelle oscene mandibole gli si chiusero sul cranio, facendolo crocchiare come una noce.

In un altro luogo e tempo, De Paula era sul ponte della nave, e col dito stava ripassando un’incisione sul montante destro del vetro della cabina di prua. Effettivamente non sembrava un polipo.
Tolse la sicura alla pistola ed entrò dalla porticina laterale.
- Capo, mi sente? Capo?

Commenti

FraC ha detto…
E' bellissimo! Inquietantissimo! Cazzo! FANTASTICO!
FraC