Cantine

"La più antica e potente emozione umana è la paura, e la paura più antica e potente è la paura dell'ignoto." (H. P. Lovecraft)

Era inevitabile che la richiesta fosse rivolta a me, il piccolino di casa, sempre volenteroso nell'aiutare il prossimo. 10 anni, ma avrebbero potuto essere 8 o 12, le sensazioni erano le stesse. Anche ora che ne ho 32, sono le stesse, nonostante la vita su certe cose sparga una patina di disincanto e asetticità.
La richiesta, dicevo, di solito era: "Tesoro, per favore, vai giù in cantina a prendere...". Poteva essere l'olio, il vino, un'attrezzatura da giardinaggio o altro. Di sicuro l'altra cosa che prendevo, andando in cantina, era uno spavento. Non potevo farne a meno, ma era così.

Piccola premessa. Fino al 2003 ho abitato in una casa del '500. Non so se avete mai visto le cantine di una casa antica. Non "vecchia", "antica". Non c'è il generatore, le biciclette appoggiata alla parete, la polvere, un congelatore a pozzetto e qualche ragnatela. No. E' come entrare in un'altra dimensione.

Andiamo insieme? Io coi ricordi, voi col pensiero.

La porta della cantina è nell'androne del palazzo. E' una porta pesante, screpolata, e in pendenza, tant'è che ti si richiude inevitabilmente sulla schiena, se non stai attento. Apri il chiavistello, giri la maniglia e di fronte a te si apre l'oscurità. Fuori può essere giorno, sera, può esserci il sole o piovere da tre giorni di fila: lì dentro è sempre notte, è un'unica e perenne stagione, immutabile da quattro secoli. Lì sotto sono scese persone che avevano appena saputo di un nuovo continente chiamato America, e che ancora non sapevano ce ne fosse un altro chiamato Oceania. E tu sei affacciato esattamente sullo lo stesso buio.

L'interruttore della luce elettrica è ovviamente all'interno. Quindi in quel nero abisso che ti si spalanca davanti nel quale tu, bambinetto tremante di 10 anni con una fin troppo fervida immaginazione, stai immaginando brulicante di creature golose delle tue carni, ci devi infilare un braccio e una spalla, badando bene di centrare l'interruttore e di non finire, magari, con la mano su una qualche sericea ragnatela lì vicina, cosa che ti regalerebbe ben più di un brivido. *Click*

La prima lampadina velata di polvere illumina, si fa per dire, la rampa di scale che scende verso il basso (ulteriore passo verso l'inferno, pensi). La guardi con diffidenza, ma intraprendi questo viaggio nell'ignoto, sentendoti un po' un archeologo, un po' uno di quelle comparse da film horror che muoiono 5 minuti dopo i titoli di testa. Dopotutto hai una missione da compiere, quella di prendere quel qualcosa e portarlo ai tuoi.
La scala si affaccia su un perfetto scantinato con volte a botte, in mattoni a vista. Ai lati di quello che sembra un cunicolo verso l'ignoto ci sono archi romanici. E', in qualche modo, affascinante. E lungo. Molto lungo. Ci sono molte porte murate, ed alcune aperte su anfratti ancora più bui, che contengono chissà cosa. Una lunga teoria di lampadine accese, penzolanti dal soffitto, fa molta meno luce di una serie di torce a muro che forse, chissà, una volta illuminavano questi anfratti dimenticati da Dio. Ora no, l'unica torcia che hai è elettrica, ed illumina quei 30 centimetri quadrati che seguono il tuo sguardo.

A metà della scala regolarmente la porta da cui provieni si chiude con un tonfo. E tu lo sai già che fa così, ma ogni volta te ne dimentichi, e ogni volta lo spavento è nuovo.
Io devo arrivare lì, poco distante dalla scala. Non mi interessa percorrere in lungo e in largo la cantina. Già mi vedo lo speaker del telegiornale che annuncia la mia morte misteriosa tra un servizio di gossip e uno di politica interna. No, io devo solo prendere l'olio. O il vino. Non voglio sapere se è vero che sotto la città c'è una fitta rete di cunicoli interconnessi tra loro (anni dopo scoprirò che è vero, ma dal mio tranquillissimo piano terra), non voglio interessarmi a quel vano dalla porta murata, completamente piena di terra, o sabbia, che seppellisce chissà cosa.
O chissà chi.

L'odore è quello che c'è in tutti i luoghi chiusi, umidi e freddi. Odore di muffa, di cimitero. Profuma di mistero, ma puzza di morte. In un angolo c'è un piccione semiputrefatto, intrufolatosi lì dalle bocche di lupo che si affacciano sul vicolo che abbraccia il lato sudest della casa, e poi perito per chissà quale strana ragione. Fame. Stenti. Mostri.
Si sentono fruscii provenire da dietro le tue spalle. Cerchi di non farci caso, saranno dei ratti. Anche se la cosa ti spaventa da morire, e ti aspetti di sentire gorgogliare un qualche mastino infernale dagli occhi rossi da un momento all'altro. E invece no, l'unica cosa che gorgoglia è il tuo stomaco contratto.

Vado verso al punto dove sono appoggiate a terra, in alcune ceste di vimini, le cose che devo prendere. Ma prima c'è una specie di inferriata con una porta da aprire, che fa assomigliare il luogo ad una prigione, alla segreta di un castello, magari infestato da spettri. Ovviamente la apri, ovviamente cigola, ovviamente ti si agghiaccia il sangue. Una ragnatela ti solletica il collo, e tu già pensi a quanti ragni ci vogliano per mangiarti tutto.

E se... e se non ci fossero i ragni? Se fosse come quando col babbo trovammo in garage quello scorpione nascosto dietro quel pannello? Lo scorpione è velenoso, è quasi peggio del ragno... l'olio, l'olio. Devo prendere l'olio. O il vino. Non devo pensare a niente. Potrei canticchiare, simulando indifferenza. Così i fantasmi capiscono che non ho paura e mi lasciano stare. Allora attacco a cantare ma... la voce esce piano, strozzata. Ce l'ho paura, eccome. Prendo la bottiglia e quasi mi cade a terra quando vedo qualcosa muoversi con la coda dell'occhio. E' un ragno, un comune ragno delle cantine europeo, ma a te sembra Shelob, sembra IT, sembra l'incarnazione stessa del male. E' il segnale: le forze sataniche si stanno radunando per TE.

Credo che non ci sia doping migliore della paura: se i 100 metri piani, invece che negli stadi, si corressero nelle cantine, avremmo molti campioni ben più giovani di Usain Bolt. Con la bottiglia in mano chiudo la porta (e il ragno, in realtà pigro e solo disturbato dal fatto che fossi lì... ma questo lo dico ORA) dietro di me, e quasi ad occhi chiusi salgo a tre a tre gli scalini che mi separano alla porta d'ingresso. In quei momenti sento tutti i ringhi, fruscii, risate che la mia immaginazione possa partorire. Col cuore in gola spalanco la porta pensando "l'hanno chiusa: sono morto!", e ad un tratto sono nell'androne del palazzo, ansimante, con la bottiglia in mano e le pupille dilatate. La porta, come sempre, si chiude dopo un po' con un tonfo, anche se stavolta spaventa di meno.

Faccio per salire le scale, e un brivido mi percorre la schiena: la luce. L'ho lasciata accesa!
Devo riaprire la porta e allungare il braccio. Ci vuole così poco.
E se sono lì dietro? Eppure devo farlo. Prendo il coraggio (e la bottiglia) a due mani e torno verso l'incubo. Apro la porta piano piano, e sembra tutto in ordine. Spengo la luce e in un secondo chiudo la porta e metto lo scrocco (altra cosa che non avevo fatto prima).

Quando mia mamma mi vede mi ringrazia, e prende l'olio, o il vino, o quello che ero andato a prendere, come se niente fosse. E in realtà cosa è successo, in quella cantina? Niente, appunto. Nessun mostro, fantasma, serial killer.
Per lo meno... non ho visto niente. Ma quello che vedi, lo gestisci. E' quello che immagini, che ti rimane ignoto, che ti spaventa fino al midollo. Proprio come diceva Lovecraft.

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